domenica 7 febbraio 2010

INVICTUS

C'è una scena dell'ultimo film di Clint Eastwood in cui due volontarie, una bianca e una nera, di una parrocchia suburbana di una città sudafricana distribuiscono indumenti ai poveri bambini che vivono nella baraccapoli lì vicino.
Quando arrivano all'ultimo ragazzino una delle due gli dice sorridente che è stato fortunato offrendogli la maglia di allenamento della nazionale di rugby sudafricana, ottenendo come risposta un sorprendente e deciso rifiuto dell'indumento.
La tipa, sorpresa, si gira verso la collega che le spiega che la gente di colore in realtà odia il rugby (in quanto sport dei bianchi) e in particolar modo i colori verde e oro.
Può sembrare una scena inutile e superficiale, ma in realtà è esemplificativa della cifra stilistica dell'autore americano: la capacità di sintesi e raffinatezza esplicativa, dove mai sembra esserci una parola fuori posto od un'immagine superflua e ridondante.
Lo spettatore in trenta secondi (e con l'escamotage delle volontarie) viene a conoscenza di cosa significa il rugby (e quei colori di quella maglia) per la popolazione nera del Sud Africa.
Anche questo ultimo film del regista è pieno di esempi del genere (Valentina me ne ha fatti notare diversi, durante la visione), di capacità di sintesi e quindi assoluta padronanza del mezzo cinematografico.
Purtroppo, però, non tutte le ciambelle riescono col buco (non sempre, almeno).
Invictus, infatti, è un film che non ci ha entusiasmato.
Sia chiaro, è sempre Eastwood (il che significa che il suo peggio è molto meglio del massimo che il 70% dei registi attualmente in circolazione possano mai anche solo provare ad immaginare!), ma il film purtroppo sembra mancare di ispirazione e, incredibilmente, risulta soporifero (per non dire proprio noiosetto).
Il rugby è molto presente e le scene delle partite sono girate molto bene (pur essendo, come il calcio, uno sport molto spettacolare nella realtà ma oggettivamente poco cinematografico), ma i personaggi sono poco approfonditi e risultano tutti con poco spessore (anche se il film è su Nelson Mandela!).
Anche gli attori (incredilmente bravi nel riuscire a proporre in maniera accetabile quello strano linguaggio singhiozzato che è l'inglese masticato dai sudafricani, come avevamo già potuto constatare ultimamente con District 9) sono al di sotto delle loro possibilità: Morgan Freeman riesce nel difficilissomo compito di sembrare Morgan Freeman (e niente più) anche nella parte di Mandela e Matt Damon colpisce maggiormente per il suo fisico anabolizzato gonfio come un peperone che per le sue battute (ne avrà una decina e tutte abbastanza stupide).
Insomma, deludente.

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